In questi anni la casistica relativa all’assenza ingiustificata, al fine di essere licenziati per acquisire il diritto alla NASpI, è fortemente aumentata. Ciò comporta un esborso per il datore di lavoro (ticket licenziamento) ed uno per lo Stato, il quale dovrà erogare l’indennità di disoccupazione ad un soggetto che, nella pratica, non ne ha diritto.
Detto ciò, queste le Nostre valutazioni sull’argomento.
La legge delega 183/2014, recepita dal Governo con i decreti legislativi del 2015 (Jobs Act), aveva disposto, tra princìpi e criteri direttivi, la “previsione di modalità semplificate per garantire data certa nonché l’autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore”. (Legge n. 184/2014 – articolo 1, comma 6, lettera g).
La suddetta disposizione è rimasta inattuata, in quanto il Governo, all’articolo 26, del Decreto Legislativo n. 151/2015, non ha previsto alcuna assicurazione circa la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamenti concludenti.
Restiamo, comunque, dell’avviso che qualora l’azienda abbia evidenza che l’assenza ingiustificata del lavoratore sia dovuta ad una scelta consapevole al solo fine di indurre la parte datoriale ad adottare un licenziamento disciplinare, sia il caso di non procedere in tal senso ma di considerare ciò come una manifestazione di uscita volontaria del lavoratore dall’azienda per fatti concludenti.
Infatti, la risoluzione per fatti concludenti rileva una manifestazione tacita della volontà negoziale assolutamente inequivocabile. In particolare, si tratta di un comportamento talmente chiaro nella sua espressione, per quanto silenziosa, che evidenzia un’unica volontà.
La Nostra riflessione è supportata da alcune sentenze giurisprudenziali, che sinteticamente si riportano.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18402 del 9 luglio 2019, ha affermato che ai fini della nullità del licenziamento orale, spetta al lavoratore dimostrare che il recesso è avvenuto per volontà del datore di lavoro e non è sufficiente la dichiarazione che il rapporto sia effettivamente cessato, potendo quest’ultimo essersi risolto attraverso l’istituto delle dimissioni o della risoluzione consensuale per fatti concludenti.
Sempre la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25583 del 10 ottobre 2019, stabilisce che per il recesso del lavoratore, un determinato comportamento da lui tenuto può essere tale da esternare esplicitamente, o da lasciar presumere (secondo i principi dell’affidamento), una sua volontà di recedere dal rapporto di lavoro, e siffatto comportamento può anche essere meramente omissivo, quale quello che si concreta in un inadempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto, in quanto suscettibile di essere interpretato anche come espressione, per fatti concludenti, della volontà di recedere.
Il Tribunale di Udine, con la sentenza n. 106 del 30 settembre 2020, ha affermato che il dipendente che si assenta ingiustificatamente dal posto di lavoro al fine di essere licenziamento dal proprio datore di lavoro con l’obiettivo di ricevere la NASpI, deve rimborsare, a titolo di risarcimento danni, l’importo pagato quale ticket licenziamento dall’azienda all’INPS. Il “cd. Ticket per il licenziamento è infatti un onere che il datore di lavoro ha dovuto sopportate esclusivamente perché il dipendente, anziché dimettersi, senza costi per l’azienda, l’ha deliberatamente posta nella necessità di risolvere il rapporto lavorativo.”.
Ancora il Tribunale di Udine, in una recente sentenza del 27 maggio 2022, ha dichiarato che “la mancata attuazione, con l’art. 26 del D.Lgs n. 151/2015, dell’inciso sulla “necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente” pur inserito nella legge delega, non pare possa impedire all’interprete di tenere in debito conto la surriferita volontà del legislatore delegante, siccome all’evidenza comunque volta a non trascurare affatto, in termini operativi, l’ipotesi di risoluzione tacita del rapporto lavorativo. Opinare diversamente e ritenere che, in frangenti quali quello in discussione, alla risoluzione del rapporto di lavoro, in caso di inerzia del lavoratore nel rassegnare formali dimissioni già fattualmente intervenute, possa pervenirsi solo attraverso l’adozione di un licenziamento per giusta causa, significherebbe optare per una soluzione esegetica non solo irragionevole, dati i presupposti, ma anche di dubbia compatibilità costituzionale, quantomeno sotto il profilo degli art. 41 e 38 Cost.”. Il giudice di merito prosegue evidenziando che “In relazione all’art. 41 Cost., infatti, si finirebbe, così, per coartare senza valido motivo la libera esplicazione dell’autonomia imprenditoriale, surrettiziamente imponendo al datore di lavoro di farsi carico dei rischi (la giustificazione in un ipotetico giudizio) e dei costi (il c.d. ticket NASPI) di un atto di gestione del singolo rapporto lavorativo – il licenziamento disciplinare, appunto- che il datore medesimo non avrebbe comunque inteso assumere, a fronte del suo ben diverso interesse non già a reprimere con la massima sanzione espulsiva il comportamento di un suo dipendente rimasto a lungo assente senza giustificazione dal lavoro, quanto piuttosto a far constare una non problematica accettazione della fine di una collaborazione lavorativa con quel dipendente, oltretutto per iniziativa dello stesso collaboratore.”
In definitiva, al fine di evitare tali abusi, che comportano una ricaduta di ordine economico sia per il datore, sia per le finanze pubbliche, nel comportamento assunto dal prestatore (abbandono del posto di lavoro), è stata ravvisata la risoluzione di fatto del rapporto e ciò a prescindere dal rispetto delle procedure telematiche, di cui all’articolo 26, del Decreto legislativo n. 151/2015.
L’articolo 26 non può che disciplinare la sola ipotesi di una manifestazione istantanea della volontà risolutiva del lavoratore, rimanendo escluso dal suo campo applicativo il differente caso delle dimissioni implicite per comportamento concludente.
Inoltre, la previsione normativa, che richiede al lavoratore di formalizzare in via telematica le dimissioni, non genera un’indiretta abrogazione del principio contenuto negli articoli 2118 e 2119 del codice civile, relativi alla libera recedibilità del lavoratore.
A questo punto, al fine di procedere con una risoluzione per facta concludentia, è fondamentale raccogliere tutti gli elementi indicativi della volontà del dipendente di interrompere il rapporto di lavoro.
Da questo punto di vista la procedura da intraprendere inizia con una comunicazione scritta al dipendente, da inviare tramite raccomandata con ricevuta di ritorno, con la quale il datore di lavoro evidenzia l’assenza ingiustificata dal posto di lavoro e lo invita a rientrare, avvalorando la tesi che si voglia proseguire il rapporto di lavoro e che non si ha alcuna intenzione di licenziarlo. L’invito dovrà contenere, inoltre, una scadenza superata la quale il datore di lavoro dovrà valutare l’assenza del lavoratore imputabile ad una sua esclusiva scelta e, come tale, ritenere concluso il rapporto di lavoro per fatti concludenti. A ciò dovrà seguire una comunicazione telematica di cessazione al Centro per l’Impiego con l’indicazione: “dimissioni volontarie”.