La fedeltà del lavoratore dipendente, assieme alla diligenza così come contemplata dall’art. 2104 c.c., rappresentano i due principali obblighi a cui è tenuto il lavoratore dipendente nei confronti del proprio datore.
Il dovere di fedeltà è disciplinato dall’articolo 2105 del codice civile, che così disciplina: “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.”
Dalla lettera della norma emerge che il dovere di fedeltà contempla al suo interno due obblighi negativi che devono essere rispettati da parte del prestatore di lavoro, ovvero il divieto di concorrenza e l’obbligo di riservatezza.
Secondo la pacifica giurisprudenza di merito, l’obbligo di fedeltà ha, pertanto, un contenuto ampio; esso si sostanzia nell’obbligo del lavoratore di tenere un comportamento leale verso il datore di lavoro e di tutelarne in ogni modo gli interessi; pertanto, rientra nella sfera di tale dovere il generale divieto di trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l’imprenditore-datore di lavoro nel medesimo settore produttivo o commerciale, senza che sia necessaria, allo scopo, la configurazione di una vera e propria condotta di concorrenza sleale, in una delle forme stabilite dall’art. 2598 c.c..
L’obbligo di fedeltà, tuttavia, non è assoluto nel tempo e nello spazio, ma soprattutto nei contenuti, e permane solo in costanza del rapporto lavorativo, e non già successivamente alla risoluzione dello stesso.
Al contrario, attraverso la sottoscrizione di un patto di riservatezza, il lavoratore può obbligarsi a mantenere assoluta riservatezza su quanto acquisito in occasione del rapporto di lavoro anche una volta cessato il rapporto e in alcuni casi senza limiti di tempo.
Inoltre, attraverso la redazione di un patto di riservatezza ad hoc:
L’obbligo di fedeltà, invece, può permanere anche dopo la fine del rapporto di lavoro solo se tra le parti, ossia datore e lavoratore, sia convenuto un patto di non concorrenza ai sensi dell’art. 2125 c.c., e se tale patto rispetti i seguenti requisiti: deve risultare da un atto gente forma scritta; deve prevedere il riconoscimento di un corrispettivo in favore del prestatore di lavoro; il vincolo deve essere limitato alla durata di 5 anni, se il dipendente è un dirigente, a tre anni negli altri casi e comunque se viene stabilita una durata maggiore di quelle appena indicate essa è ridotta automaticamente a dette durate.
In caso contrario, il dipendente, una volta cessato il rapporto di lavoro, in mancanza di un patto di non concorrenza, potrà intraprendere finanche un’attività in concorrenza con l’impresa con cui aveva intrattenuto il precedente rapporto professionale, sia che avvii in proprio tale attività, sia che svolga una prestazione di lavoro alle dipendenze o in collaborazione con altri.
Premesso quanto sopra, il dipendente rimane sottoposto alle medesime regole valevoli per qualunque altro soggetto, non derivando dalla qualità di ex dipendente alcun ulteriore divieto od onere: dunque, l’eventuale illiceità della concorrenza viene ancorata al compimento di atti qualificabili come oggettivamente sleali, a prescindere dalla qualità del soggetto agente.
La concorrenza sleale è disciplinata dall’art. 2598 del Codice Civile, il quale stabilisce che compie atti di concorrenza sleale chiunque:
1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente;
2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente;
3) danneggia l’azienda concorrente utilizzando qualsiasi mezzo che viola i presupposti della correttezza professionale.
Il tentativo di sviare il cliente altrui rappresenta il più significativo esempio di concorrenza sleale e questa, ove posta in essere da un ex dipendente, si rappresenta non conforme ai principi della correttezza professionale, allorquando lo stesso sfrutti informazioni riservate (conoscenze, competenze, know how, contatti e rapporti) acquisite nel corso del suo precedente impiego, quali, ad esempio, l’archivio clienti e contatti.
Si possono segnalare, sul punto, orientamenti della Suprema Corte di Cassazione (Ordinanza n. 18034, del 6 giugno 2022) molto rigidi e che ritengono sussistente la concorrenza sleale, ex art. 2598 c.c., ogni volta che l’ex dipendente abbia utilizzato sia i “dati riservati”, che informazioni non oggetto di segreto industriale.
Si segnala, ancora, che la Cassazione ha munito di sanzione penale ai sensi dell’art. 623 cod. pen., e dunque riconosciuto meritevole di tutela non solo civilistica, la condotta dell’ex dipendente di un’impresa che abbia rivelato ad altra concorrente, il know how acquisito, con la conseguenza che la rivelazione consentiva la progettazione e realizzazione di un’apparecchiatura dello stesso tipo e dotata delle stesse funzionalità ed applicazioni pratiche di quella impiegata della prima società presso la quale prestavano la propria collaborazione.
La portata dell’obbligo previsto dall’art. 2105 cod. civ., pertanto, è stata ampliata dalla giurisprudenza di legittimità, fino a ricomprendere anche tutte quelle condotte «che, per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nella organizzazione dell’impresa o creano situazioni di conflitto, ANCHE POTENZIALI, con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere il vincolo fiduciario del rapporto stesso» Cfr. Cass sez. lav. 30/10/2017, n.25759; conforme: Trib. Milano n. 3221/2011.
La Cassazione, infatti, ritiene che il contenuto dell’obbligo di fedeltà del lavoratore non si limiti ai solo divieti espressamente sanciti dalla normativa in esame, perché detta normativa deve essere integrata con gli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extra lavorativi.
La fiducia in ambito lavoristico di cui all’art. 2105 cod. civ., è, dunque, un istituto in evoluzione, destinato ad abbracciare, secondo l’interpretazione monofilattica della Suprema Corte, un novero sempre maggiore di fattispecie concrete.