Per “supersocietà di fatto” si intende quella società personale di fatto alla quale partecipano, in qualità di soci illimitatamente responsabili, più soggetti, persone fisiche o giuridiche, società tanto di persone quanto di capitali.
Trattasi, quindi, di una società in nome collettivo irregolare, non iscritta nel registro delle imprese, ma costituita per fatti concludenti, senza alcuna formalizzazione.
Tale figura risulta ammessa dalla giurisprudenza e ne è ammessa la sua fallibilità.
In particolare, trattandosi di una società di persone, il suo fallimento è disciplinato dagli artt. 147 e 148 L.F.
L’art. 147 al I – IV e V comma dispone che “La sentenza che dichiara il fallimento di una società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV [2291-2324 c.c.] e VI [2452-2461 c.c.] del titolo V del libro quinto del codice civile, produce anche il fallimento dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili”.
Se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il tribunale, su istanza del curatore, di un creditore, di un socio fallito, dichiara il fallimento dei medesimi .
Allo stesso modo si procede, qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l’impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile”.
La prima questione che è stata affrontata riguarda la configurabilità o meno di una società di fatto partecipata da società di capitali e la conseguente sua fallibilità ai sensi del I comma dell’art. 147 L.F
Difatti, il primo ostacolo che sembrava porsi è la norma di cui all’art. 2361 II comma, relativa alle s.p.a. , la quale dispone che: “l’assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime deve essere deliberata dall’assemblea; di tali partecipazioni gli amministratori danno specifica informazione nella nota integrativa del bilancio”.
Sul punto, la Corte di Cassazione, già con la sentenza del 2016 n. 1095, ha superato tale limite e ha riconosciuto che è ipotizzabile la partecipazione di una società di capitali ad una SDF, anche nell’ipotesi in cui manchi una delibera assembleare di cui all’art. 2361 II comma o l’informazione della nota integrativa.
Quindi, è stata ammessa la configurabilità di una società di fatto partecipata da società di capitali e la conseguente sua fallibilità ai sensi del I comma dell’art. 147 L.F.
Posto questo, altro dubbio riguardava il V comma dell’art. 147 L.F., in quanto letteralmente lo stesso si riferisce all’ipotesi in cui il fallimento originario sia quello dell’imprenditore individuale.
Anche tale limite è stato superato dalla giurisprudenza ( Cass. N. 10507/2016 e succ.), la quale ha ormai pacificamente affermato che, se è riconosciuta la fallibilità di una società di fatto costituita da società di capitali ai sensi del I comma, non vi è ragione di ritenere diversamente nell’ipotesi di cui al V comma , ovvero quando l’esistenza della SDF emerga in un momento successivo al fallimento autonomamente dichiarato da uno solo dei soci.
È evidente che non vi sia ragione che giustifichi un differenziato trattamento normativo, ammettendone o escludendone la fallibilità a seconda che il socio già fallito sia un imprenditore individuale.
Nella sostanza ciò vuol dire che la norma citata trova applicazione non solo quando, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti che l’impresa è, in realtà, riferibile a una società di fatto tra il fallito e uno o più soci occulti, ma anche, in virtù di sua interpretazione estensiva, quando il socio già fallito sia una società, anche di capitali, che partecipi, con altre società o persone fisiche, a una società di persone (cd. supersocietà di fatto).
Il percorso giurisprudenziale sopra evidenziato è stato da ultimo confermato dalla recente riforma della legge fallimentare, laddove nell’art. 256, 5° comma – che va ad occuparsi della tematica attualmente oggetto dell’art. 147, 5° comma, L. Fall. – viene aggiunto il riferimento della “società” accanto a quello dell’“imprenditore individuale”: il nuovo comma recita infatti «allo stesso modo si procede quando, dopo l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale nei confronti di un imprenditore individuale o di una società, risulta che l’impresa è riferibile ad una società di cui l’imprenditore o la società è socio illimitatamente responsabile».
Delineato l’ambito di applicazione del fallimento della SDF, si riporta di seguito una breve sintesi degli elementi che devono sussistere affinché si possa affermare l’esistenza di siffatta figura societaria:
Conseguentemente, occorre dimostrare l’esistenza di un fondo comune, la partecipazione ai guadagni ed alle perdite e la cd. affectio societatis, ovvero una collaborazione in vista dell’attività economica nei confronti dei terzi.
È bene rilevare che la Cassazione ( Cassazione civile sez. I, 17/04/2020, n.7903) ha precisato che “La sussistenza del presupposto dell’estensione del fallimento postula la rigorosa dimostrazione del comune intento sociale perseguito, che deve essere conforme, e non contrario, all’interesse dei soci; al contrario, la circostanza che le singole società perseguano l’interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo costituisce una prova contraria all’esistenza della supersocietà di fatto e semmai indice di esistenza di una holding di fatto”. Difatti, in tale ultima ipotesi il curatore può agire in responsabilità (art. 2497 c.c.) e, comunque, la “holding” di fatto può essere dichiarata autonomamente fallita, ove ne sia accertata l’insolvenza a richiesta di uno dei soggetti legittimati.
Altro elemento che legittima il fallimento della SDF è costituito dall’accertamento dello stato di insolvenza.
In particolare, la giurisprudenza recente (Cass. Civ., Sez. VI, sent. 4 marzo 2021, n. 6030) ha affermato che per poter dichiarare il fallimento della supersocietà di fatto è necessario accertarne e dimostrarne lo stato di insolvenza, trattandosi di un fallimento non dipendente (com’è, invece, per il caso dei soci illimitatamente responsabili rispetto al fallimento della supersocietà), ma autonomo rispetto a quello dei suoi soci illimitatamente responsabili.
In altre parole, il fallimento della supersocietà di fatto costituisce il presupposto logico e giuridico della dichiarazione di fallimento, per ripercussione, dei soci, ma al fine di dichiarare il fallimento della supersocietà l’indagine del giudice dev’essere indirizzata all’accertamento sia dell’esistenza di una società occulta (o di fatto) cui sia riferibile l’attività dell’imprenditore già dichiarato fallito, sia della sua insolvenza”.
Quanto sopra, costituisce certamente un limite alla fallibilità della SDF, posto che all’insolvenza del socio già dichiarato fallito potrebbe non corrispondere l’insolvenza della s.d.f. (così Cass., 20 maggio 2016, n. 10507).
In conclusione, alla luce di quanto esposto si possono ragionevolmente ritenere ben delineati gli elementi essenziali che caratterizzano nel concreto una S.D.F., pur rimanendo ancora aperte diverse questioni interpretative che continueranno, certamente, ad essere oggetto di attenzione da parte della giurisprudenza.